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20 aprile 2024, Aggiornato alle 11,43
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Politiche marittime

Riforma dei porti, il cluster vuole una Spa del mare

Autorità portuali manager, Comitati CdA e autonomia finanziaria. Una mappa delle richieste che il cluster, guidato da Assoporti, fa al governo


di Paolo Bosso 
 
Sono stati ascoltati tutti: porti, agenti marittimi, comuni, diportisti. In queste ultime settimane tutto il cluster marittimo italiano è passato per la VIII Commissione Lavori Pubblici del Senato a far sentire la propria voce con indicazioni e proposte sulla riforma della legge 84/94 che riguarda i porti. Secondo Assoporti i punti su cui rinnovare la legislazione in materia sono due: il ruolo delle Autorità portuali e l'autonomia finanziaria. Il primo a sua volta si sdoppia in due: uscire subito, è la richiesta di Assoporti, dall'elenco Istat che include l'ente nella spending review e potenziare le sue funzioni. Analizziamo punto per punto queste richieste.
Il contesto. Il progetto di riforma della 84/94 è vecchio di undici anni, quando nel 2002 arrivò in Parlamento la prima bozza. Da allora la geopolitica dei traffici marittimi è cambiata profondamente. Per intenderci, nel 2002 parole come business delle crociere, gigantismo navale, eccesso di capacità, non erano presenti nel vocabolario. Nell'eventualità che il governo riesca a modificare alcuni punti della 84/94, stiamo in ogni caso parlando di qualcosa che non potrà mai essere chiamata riforma, altrimenti non ci avrebbe messo undici anni per realizzarsi. Stiamo parlando, insomma, di una montagna che partorisce un topolino. Ma almeno gli operatori sperano che questo topolino qualche beneficio lo porti. 
Autorithies. Il cluster marittimo italiano, soprattutto gli operatori, lo vorrebbero organizzato come un'azienda: un presidente e un direttore generale/amministratore delegato al posto del segretario. Quello che Umberto Masucci, presidente del Propeller Club nazionale, sintetizza nel ticket, l'elezione congiunta di presidente e vicepresidente degli Stati Uniti. Autorità portuali-manager che decidano sulle concessioni ordinarie in piena autonomia, esonerando il Comitato portuale dall'ordinaria amministrazione, trasformando così quest'ultimo in un "parlamentino". «Il comitato portuale che vorrei è quello dove la rappresentanza sia costante, mettendo gli operatori nella condizione di rivolgersi sempre allo stesso interlocutore», sintetizza il presidente Federagenti, Michele Pappalardo.
Comitati portuali. Ma non tutti la pensano allo stesso modo sui comitati. C'è chi vorrebbe addirittura allargare la rappresentanza in quello che funziona, o dovrebbe funzionare, come un consiglio d'amministrazione del porto. Confcommercio vorrebbe ampliarli allargandoli a imprese commerciali e turistiche. Quanto questo determinerebbe un aumento dei conflitti d'interesse è ancora presto per capirlo, ma è molto probabile che si moltiplicherebbero.
Servizi tecnico-nautici. C'è chi li vorrebbe liberalizzati, come l'Ap di Venezia di Paolo Costa, e chi giammai, come i diretti interessati rappresentati dall'Assorimorchiatori di Mario Mattioli. In ogni caso è un mondo che andrebbe riorganizzato, dove ci sono forte lobby, cariche di tradizione, ma pur sempre lobby. Assoporti vorrebbe che a stabilire le tariffe fosse la stessa authority, rispetto ad una situazione attuale che di fatto la estromette, limitandola a vidimare quello che Capitanerie, MIT e categorie (rimorchiatori, piloti, ormeggiatori) hanno già deciso.
Autonomia finanziaria. Su questo si è già speso tanto in parole. Si è provato anche a cambiargli nome: autodeterminazione finanziaria, ad indicare che con questi soldi i porti possono essere quello che vogliono, autodeterminarsi appunto. La richiesta del cluster è sempre stata chiara: la situazione attuale, che stabilisce un 1% di gettito con un tetto massimo totale di 90 milioni di euro da distribuire su 23 porti sono briciole di fronte a un comparto industriale che genera più ricchezza e occupazione dell'agricoltura (quella basata sulle importazioni sia chiaro). Il cluster vorrebbe un 3% senza tetto, niente di più, niente di meno.
A conti fatti le richieste non sono tante, né radicali. Non si chiede più un piano nazionale della logistica – visto la fine che ha fatto quello che girava nei convegni fino a un anno fa. Non si pretende la creazione di distretti logistici su cui raggruppare le autorità portuali, in alternativa alla riduzione del loro numero. La dispersione logistica del paese è fondata, come sa bene il mondo portuale, su fattori geografici e culturali, la questione del numero eccessivo delle authorities è una falsa questione che, anche se risolta una volta per tutte determinerebbe soltanto porti più organizzati, ma sempre senza infrastrutture decenti per competere con i grandi traffici. Il cluster marittimo vuole soltanto una svolta politico-liberale che possa dare ai porti italiani la potenza necessaria per porsi come un soggetto autonomo e in concorrenza, anche se ancora non si è capito se questa concorrenza debba essere con i porti esteri o tra i porti italiani.
 
foto in alto: © Freek Van Arkel