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28 marzo 2024, Aggiornato alle 16,33
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Politiche marittime

Un modello corporativo per i porti europei?

Nella sua tesi di dottorato, il segretario dell'Ecsa Patrick Veroheven traccia un progetto di governance a metà tra quello municipale del Nord e statale del Sud. Enti a responsabilità sociale d'impresa piuttosto che spa


di Paolo Bosso - dal numero speciale 2015 del Bollettino Avvisatore Marittimo
 
I porti europei sono sotto pressione. «Si va da loro per lamentarsi. Fateci caso: è l'ente su cui tutti si sfogano quando le cose non vanno bene». Patrick Verhoeven, segretario dell'European Community Shipowners' Association (Ecsa) sintetizza così la situazione in cui versano le autorità portuali del Vecchio continente. Il che non è un problema, perché in parte sono lì proprio per quello, per raccogliere la domanda di portualità del territorio. Ma questa pressione a cui sono sottoposte sta diventando eccessiva. I porti avrebbero bisogno di svecchiarsi e unificarsi nella governance. Ma quale modello, però, è il più adatto tenendo conto della grossa diversità tra nord e sud, tra gli scali che si affacciano sul mar Baltico e quelli del Mediterraneo? È la questione che si pongono tutti gli addetti ai lavori e a cui lo stesso Verhoeven ha cercato di dare una risposta con una ricerca di dottorato pubblicata l'anno scorso: Economic assessment of management reform in european seaportsrealizzata con l'Università di Anversa. Rappresenta ad oggi la più aggiornata analisi sulla materia, un quadro esaustivo che fotografa l'eterogenea governance portuale europea, per disegnare infine una governance unitaria e transnazionale che attualmente manca.

Tre tipi di governance portuali
Perché non esiste una portualità europea? Perché i 94 scali principali del continente, quelli riconosciuti dal Parlamento europeo all'interno delle reti transeuropee di trasporto, sono molto diversi tra loro. La classica tripartizione governativa di Fernand Suykens è ancora valida. Ci sono le autorità portuali "anseatiche", basate sul controllo "municipale", sia sotto il profilo del demanio sia delle attività commerciali. È il modello dei porti nordeuropei che si affacciano sul Baltico e il Mare del Nord, ovvero Rotterdam, Anversa e Amburgo per citare quelli più importanti. Poi c'è la tradizione "latina", quella a forte controllo governativo che si ritrova nei porti francesi, italiani e in buona parte di quelli spagnoli. Infine, la tradizione, tutta anglosassone e unica nel suo genere, dominata dai trust port del Regno Unito, autorità portuali privatizzate ai tempi del governo Tatcher. Come uniformare questi modelli di governance così diversi? Secondo Verhoeven non c'è da scegliere un modello unificato: nessuno si sognerebbe una cosa del genere. Piuttosto bisogna stabilire delle pratiche, un certo status dell'autorità portuale uguale ovunque che si adatta poi al singolo territorio. È lo status dell'indipendenza finanziaria e funzionale/gestionale. In un manifesto di maggio 2012 l'Espo proponeva di dotare i porti di due poteri: autonomia finanziaria e controllo totale sui servizi logistici. Proprio quelle due azioni che gli operatori portuali italiani chiedono al governo da anni. Gli effetti dell'affidamento di questi due poteri darebbero alle authorities la possibilità di esercitare un controllo totale sulla catena logistica. In pratica, si darebbe ai porti la possibilità di farsi attori delle proprie decisioni sia sul fronte commerciale che finanziario. La strada dell'autonomia non significa, però, che ciascuna autorità portuale, grande o piccola, possa godere di privilegi manageriali e fiscali. Per l'Italia una cosa del genere sarebbe il caos. Si pensi a quanti piccoli porti avrebbero la possibilità di esercitare lo stesso potere di scali molto più grandi che si trovano nello stesso territorio e che gestiscono servizi continentali. Si creerebbero conflitti tra porti e operatori, tra servizi marittimi e intermodali, tra enti pubblici e associazioni di categoria, paralizzando la catena logistica. Come si risolve questo rischio? La strada dell'autonomia finanziaria passa, secondo Verhoeven, per la corporazione. 

Corporazione o privatizzazione?
Stabilita l'autonomia in questi termini, quale potrebbe essere la forma governativa definitiva? Secondo Verhoeven le alternative sono due: corporazione o privatizzazione. Con la prima le autorità portuali resterebbero sotto controllo statale/governativo, con quest'ultimo che diventa uno shareholder, mentre con la privatizzazione, seguendo il modello anglosassone, l'autorità portuale cede la sua "proprietà" a uno o più attori privati. Considerando che quasi tutti gli scali italiani ed europei sono multipurpose, cioè movimentano diversi tipi di merci, la strada da prendere in Europa è, secondo Verhoeven e l'Espo, quella della corporazione piuttosto che della privatizzazione. Quest'ultima complicherebbe solo le cose, avviando cambiamenti radicali imprevedibili per i singoli
porti visto che seguirebbero le sole leggi del mercato. In altre parole, la privatizzazione sarebbe utile solo se il porto è già specializzato e movimenta per di più un solo tipo di merce. 
Il modello corporativo non risiede però nel modello delle "società per azioni", quello declamato in Italia quando si discute di autonomia, ma di enti a "responsabilità sociale d'impresa", ovvero, come la definisce la Commissione Ue in una comunicazione del 25 ottobre 2011 (n. 681), enti che applicano una «integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate». 

Definito lo status giuridico, resta da affrontare il nodo dei conflitti territoriali interni. La strada della corporazione, lo dice la parola stessa, è anche quella della creazione di cluster portuali. Questo significa che i grandi porti andrebbero a inglobare nella giurisdizione scali limitrofi più piccoli che comunque, sulla base di un sistema corporativo, godrebbero di una certa autonomia governativa e finanziaria. Le autorità portuali corporative avrebbero una struttura semplificata basata su due categorie, i revisori e i manager. I primi monitoreranno bilancio e progetti con maggiore responsabilità vista l'autonomia finanziaria a disposizione, i manager avrebbero, invece, il compito di mantenere viva l'attività del porto promuovendone i traffici e stringendo accordi commerciali
con armatori e operatori. La corporazione è un modello di governance appena nato. Anche se definito in modo sufficientemente completo deve essere applicato ai singoli stati, cosa che richiederà sforzi notevoli per uniformarsi alla struttura "suykensese" dei porti europei che, volente o nolente, non si può cambiare più di tanto.
 
Da Anversa a Bruxelles, biografia di Veroheven
Patrick Verhoeven è il segretario generale dell'European Community Shipowners' Associations (Ecsa), l'associazione che rappresenta gli armatori europei. Prima di avere questo, incarico che mantiene dall'agosto del 2013, Verhoeven è stato per tredici anni segretario generale dell'European Sea Ports Organization (Espo) e per sette anni ha rappresentato gli interessi europei di terminalisti, agenti marittimi e compagnie specializzate in silos. La sua carriera è iniziata come agente marittimo con base ad Anversa, lavorando per la Grisar&Velge. Ha una laurea in legge e una specializzazione in economia applicata, entrambe conseguite all'Università di Anversa. È guest professor all'Università di Ghent. Vive ad Anversa con la
moglie e tre figli.