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18 aprile 2024, Aggiornato alle 19,59
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Eventi

Il bluefield del porto

La storia del waterfront raccontata dal geografo Jacques Charlier, intervenuto all'evento Aivp di Dublino. Possono essere di tre tipi. Tutti rispecchiano la necessità di far convivere merci e persone


dall'inviato Paolo Bosso
 
La prima volta che si è nominata la parola waterfront con cognizione di causa è stato nel 1985. Caution, working waterfront: the impact of change on marine enterprises, un paper firmato dagli urbanisti Ann Breen e Dick Rigby, che qualche anno prima, nell'81, hanno fondato il Waterfront center, un'organizzazione no-profit con lo scopo di far fronte a un fenomeno tipico di quegli anni: la riorganizzazione degli spazi portuali all'indomani della prima rivoluzione industriale di tipo portuale. Una rivoluzione arrivata col container, standardizzato dalla Convenzione di Ginevra del 1972. Il box di metallo, inventato dall'imprenditore americano Malcolm Mclean nel '56, ha cambiato profondamente i porti.

Anni in cui la logistica si automatizza e velocizza, disegnando una nuova geopolitica del commercio marittimo. I porti entrano nella modernità un paio di secoli dopo la rivoluzione industriale. Da luoghi esotici diventano meccanizzati, ma, a differenza di un classico polo industriale, non possono abbandonare la funzione per cui sono nati: luoghi di partenza e arrivo di persone, oltre che di cose. Con il commercio globale lo spazio portuale, per la prima volta nella sua storia, si problematizza, chiede di essere riutilizzato, riciclato, ottimizzato.

In questa convivenza tra merci e persone si infila il waterfront, uno spazio intermedio dove questi due elementi - che il capitalismo tende a fondere in un unico, terribile soggetto – vengono messi nelle condizioni di convivere. «Il waterfront è un bluefield, lì dove sulla terraferma si parla di greenfield» spiega Jacques Charlier, professore di geografia all'università di Louvain-la-Neuve, in Belgio. Charlier è intervenuto ieri a Dublino, in occasione della conferenza annuale dell'Association internationale villes and ports, dedicata quest'anno proprio ai waterfront (qui l'altro articolo di Informazioni Marittime dedicato all'evento). Il concetto di "acqua edificabile" di Charlier non significa fare i palazzinari sul mare, come accade per esempio a Dubai, ma all'inverso fare in modo che quello spazio tra il mare e la città sia funzionale alle attività legate al mare, sia orientato al mare e si faccia guardare dal mare. «Ma gli spazi di lavoro del porto - spiega Charlier - sono quasi sempre chiusi al pubblico, per ovvi motivi i sicurezza: sono posti pericolosi». 

Il waterfront è, banalmente, lo spazio portuale immediatamente vicino il mare. Può avere diverse forme, a seconda se il porto è polifunzionale o specializzato. Ci può essere un fronte-mare rivolto ai soli passeggeri, ai container, al gas, al petrolio, o a tutte queste cose insieme. Il porto è l'unico luogo al mondo dove tutte queste funzioni, che corrispondono a spazi specifici, si mischiano e si scambiano di posto continuamente. Si pensi, per esempio, ai vecchi cantieri nautici riqualificati in stazioni marittime. Il porto è un luogo dove si scambiano continuamente merci e persone, uno scambio che implica un nuovo uso degli stessi spazi. La cosa da tenere a mente è che ogni sistemazione non sarà mai definitiva. «Londra – spiega Charlier - è un porto fluviale che ha trasformato il suo waterfront da luogo di carico e scarico merci a centro urbano, ma è un esempio estremo. In genere i porti nel mondo sono come quello di New York, dove il fronte-mare corrisponde alla parte storica della città.

Tre tipi di waterfront
Charlier classifica i waterfront in tre tipologie: ricreativo, lavorativo e misto. Il waterfront ricreativo è nella maggior parte dei casi il polo nautico o, in casi particolari, come a Nantes in Francia, luogo di esposizione di installazioni artistiche. Sono waterfront tutto sommato facili da realizzare, perché isolati da tutto il resto. Spazi pubblici come un qualunque altro spazio cittadino. Sono invece i fronte-mare lavorativi e misti che richiedono uno sforzo maggiore. 

Waterfront misto
Per il professor Charlier il miglior esempio di waterfront misto è Cape Town, il Victoria & Alfred waterfront. Realizzato nel 1870 con il bacino Albert, condivide attracchi per rimorchiatori e yacht. «Una situazione di questo tipo – spiega il prof - è resa possibile dal fatto che il porto è principalmente orientato alla pesca. Ma scordatevi di poterci fare una passeggiata in bicicletta, se non alle prime ore del mattino. È un peccato, la parte moderna del porto è chiusa al pubblico». Per Charlier un altro esempio di waterfront misto, che mischia attività industriale e ricreativa, è il sistema portuale di Los Angeles-San Pedro. Movimenta milioni di teu l'anno e nello stesso tempo ha una vastissima area dedicata alla nautica. «Un waterfront che ha circa trent'anni, di basso profilo – spiega Charlier - ha ben due musei dedicati alla Us Navy, dei quindici sparsi negli Stati Uniti. A breve ne verrà realizzato un terzo al posto di un brutto parcheggio». Altri esempi di waterfront misti sono Port Elizabeth, Richard Bay, e Durban in Sudafrica; Oakland in California e Miami in Florida. 

Working waterfront
Anversa, Rotterdam e Amsterdam sono per gli urbanisti i migliori esempi di waterfront industriali. «Si tratta di una costa con cantieri di riparazione, industrie, terminal passeggeri. Il Columbus terminal di Bremerhaven è un buon esempio di waterfront "lavorativo": come per tutti i terminal container, è offlimit, ma un bus permette di girarlo. Pur essendo chiuso al pubblico, puoi visitarlo, basta che ti prenoti. I waterfront – conclude Charlier - dedicati per di più alle attività merci sono, inaspettatamente, luoghi che il pubblico può attraversare in tanti modi diversi: bici, auto, visite di gruppo. Pur essendo meno elastico di un waterfront ricreativo puro o misto, nondimeno impedisce il passaggio ai cittadini che non vi lavorano».